DIARIO TREVIGIANO
A cura di Franco Piol
UNO SGUARDO SULL’ATLETICA
– (Di Fulvio Maleville) –
Seduto sulla panca del campo di San Lazzaro in occasione dei CDS cadetti o negli spalti dei CDS assoluti ho avuto modo di fare alcune considerazioni arrivando a stabilire che l’atletica è rimasta quella di 30 – 40 anni fa e continua a perdersi nei meandri delle discussioni sulla formazione della grande società invece di analizzare la propria condizione e cercare soluzioni valide per migliorarsi.
Il nostro sport appare oggi come allora vincolato a poche persone in grado di qualificare gli atleti mentre la massa degli iscritti è priva o quasi di qualsiasi sostegno tecnico. Pochi dirigenti e tecnici sono quindi in grado di dare all’Atletica un nuovo impulso, solo selezionati operatori in grado di gestire compiutamente generazioni atletiche che si riciclano periodicamente, impedendo il sedimentarsi di una memoria storica delle esperienze realizzate.
Ma il dato più sconfortante è l’improduttività, cioè la scarsa capacità di qualificare il materiale umano a disposizione. In questi anni abbiamo assistito ad un boom demografico in campo dovuto perlopiù alla crisi e conseguentemente ad un afflusso verso il nostro sport incentivato dal basso valore economico della richiesta rispetto ad altre attività. L’atletica costa poco ed ha attirato interesse portando in pista una quantità di ragazzi che non si vedeva dagli anni ’80. Questo fenomeno però sta già attenuandosi e con esso anche la statistica possibilità di estrapolarne i talenti.
Ma cosa serve trovare ragazzi dotati se poi l’ambiente non è in grado di qualificarli?
Perché appare questo il problema di fondo, condizione che si può facilmente visualizzare leggendo e filtrandone i contenuti degli articoli sui giornali o delle pagine web che s’interessano di atletica. Il giornalismo da questo punto di vista palesa l’incapacità culturale di saper fare una seria riflessione e punta solo alla notizia. E’ così che si esaltano gli atleti appena conseguono un risultato degno di nota per passarli altrettanto celermente nel dimenticatoio non appena le loro prestazioni scompaiono dalle cronache o si normalizzano. Molti giovani che enunciavano qualche predisposizione diventano desaparecidos, cioè scompaiono senza nemmeno che qualcuno si degni di girare verso di loro la testa. Mai ci si chiede per quale motivo hanno smesso e soprattutto in cosa noi adulti abbiamo mancato per averli così precocemente esclusi dall’attività.
Dovremmo porci queste domande e soprattutto darci delle risposte, perché appare facile avvicendare gli adepti quando il riciclo in campo è sostenuto da un numero rilevante di arrivi ma diventa improbo sostituirli quando il flusso diminuirà drasticamente.
Certo, siamo figli della società del consumo, ma non certo accorti per valutare che l’interesse Federale, societario, tecnico ed umano indicherebbe di ripensare alla proposta sociale, agonistica, tecnica e di rapporto umano che abbiamo fino ad ora instaurato con i nostri iscritti. Al dunque di tanta riflessione appare scontato che dovremmo cambiare atteggiamento.
I giornalisti dovrebbero redigere le notizie intrecciandole all’aspetto umano del rapportarsi dei ragazzi con l’ambiente, descrivendone sì le note prestative ma anche le valenze, le difficoltà, gli obiettivi e le capacità di quanti concorrono ad agevolare l’atleta ad affermarsi. Insomma il giornalista avrebbe il compito di approfondire e stimolare l’ambiente nel rispondere alle esigenze formative dei giovani, nonché aggiornarsi sul reale valore del risultato. Perché attualmente si tende solo ad esaltare le note prestative sorvolando sul valore di prospettiva di quanto conseguito.
I dirigenti dovrebbero invece lavorare per agevolare l’atleta creando i presupposti affinché abbia ad evolvere. Se non si migliorano le strutture dove ci si allena, la qualità dei tecnici che operano e non si sostengono gli atleti nelle problematicità fisiche, ambientali e di rapporto con gli adulti risulterà difficile pensare che il soggetto possa evolvere e restare a lungo nell’ambiente.
I tecnici devono rendersi conto che la prospettiva degli atleti è fortemente legata al loro lavoro. L’allenatore non può ridurre il proprio intervento alla dispensa organica o tecnica dei contenuti, la sua deve essere un’opera costruttiva dell’individuo sia negli aspetti tecnici che in quelli fisici, perché sono fogge che fanno da presupposto alla prestazione e consentono all’individuo d’imparare che fare atletica significa migliorare i tanti aspetti che costruiscono i presupposti non solo per fare prestazione ma per farla successivamente evolvere.
Infine volevo dire che dalla mia riflessione esce un’atletica in grande difficoltà. Il nostro è uno sport che non risulta in grado di competere con altri. Se dovessimo ad esempio porci in antitesi con la ginnastica ne verremmo fuori massacrati, perché i nostri ragazzi non presentano posture tecniche, mancano dei supporti neuro muscolari e coordinativi. In pratica si confida solo sulle doti di mamma natura. Nella ginnastica i ragazzi vengono costruiti fisicamente in modo equilibrato e il livello medio degli atleti dimostra note tecniche di elevato valore. Da noi alle gare si può assistere ad una kermesse dell’improvvisazione, spesso a livello giovanile gli atleti gli atleti vengono proiettati in gara senza nemmeno conoscere l’attrezzo o le regole, gli esercizi che fanno da presupposto vengono eseguiti in modo scorretto e i punti focali delle specialità del tutto ignorati.
Evidentemente l’atletica deve cambiare modo di lavorare e per fare questo c’è bisogno che tutti si mettano in gioco e soprattutto che s’inseguano obiettivi formativi e non prestativi. La nostra improduttività è sancita dai risultati medi degli atleti e soprattutto dalla scarsa capacità da parte dei ragazzi di esternare capacità tecniche, fisiche e coordinative.
Fino a quando si continuerà ad allenare i giovani con metodologie che rispecchiano quelle degli atleti evoluti sarà difficile uscire da questa situazione.
Gli alti dirigenti societari e Federali prendano nota di questo spaccato. Non sono tenuti necessariamente a condividere la mia analisi ma almeno a valutarne ambiti ed interpretarne gli effetti che ho sottolineato.
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Da “Queen Atletica”
RIFLESSIONI
Oggi ci è arrivato questo messaggio di Mario Giannini, un appartenente al nostro gruppo:
Esaurita la fase regionale dei cds, vorrei fare alcune considerazioni, (nella speranza che nessuno si offenda) andando ad esaminare in alcune regioni i risultati negativi, non tanto dal punto di vista del punteggio, ma di partecipazione. Gare non disputate, per mancanza di atleti, risultati da campionati studenteschi della scuola media, salto in alto femm. con 1,20, asta con 3 Nulli, 3000 st fem che arrivano a notte fonda. Ma andiamo con ordine: Abruzzo, asta M partecipanti 3, 110 hs =3 (nel ricordo di Cornacchia!) asta femminile 1. CALABRIA 110 hs = 0, 400 hs =0, 100 hs=0 400 hs=0 asta f=0 5000 f=0 asta m=1 CAMPANIA, asta M,3 da ridere, 3000 st fem 2, Alto f =5 (120) la 5^. LIGURIA 110 hs=4 400 hs=2 Marcia=2. SARDEGNA 3000 siepi= 5 passeggiata scolastica, 110 hs=0 asta maschile, solo per fare numero. asta femminile=1; 100 hs=1; 400 hs=2. Questo significa che in 1/3 di ITALIA, l’atletica non esiste numericamente. Quando una società pretende la sistemazione di un impianto, con quali numeri si presenta! Quale considerazione vogliamo avere dalla stampa. E’ inutile lavorare bene con 1 o 2 atleti, fare un record e non avere la base, perché dalla base nascono i talenti.
Contemporaneamente chi ha acquistato oggi il più grande quotidiano sportivo italiano, la Gazzetta dello Sport, non avrà non potuto apprezzare che tutta la pagina dedicata all’atletica se l’è conquistata il Jamaica Invitational zeppo di stelle e di campioni che hanno sfrecciato sulla pista blu di Kingston, mentre le gare del weekend italiano, che hanno movimentato l’intera macchina organizzativa e sportiva dell’atletica su pista del Nostro Paese (migliaia tra atleti, tecnici e dirigenti) si è tradotta in un trafiletto mignon di 7 righe, fagocitate e annichilite da Asafa Powell e Sanya Richard Ross.
Colpa di certo non può averla la Gazzetta, che deve vendere copie, e ragiona in termini di cifre a 6 zeri. Ora: al grande pubblico generalista interessa di più Asafa Powell o i risultati dei campionati di società italiani, dove a parte un paio di prestazioni, non si è visto molto di presentabile a livello internazionale?
Per chi c’era, si ricorda cosa rappresentassero i campionati di società negli anni ’90? Erano la competizione in cui TUTTI i migliori atleti italiani esordivano. Questo perchè, ed è del tutto ovvio, le società militari, che posseggono e possedevano il 99% del patrimonio umano di vertice di questo sport, facevano parte del campionato di società ed erano coinvolte nella grande corsa verso lo scudetto.
E i giornali, all’indomani dei cds, o nell’edizione della domenica, dedicavano almeno mezza pagina ad una carrellata di risultati di rilievo. Oggi praticamente nulla.
Dopo la loro esclusione, figlia di accordi per favorire qualche società civile e racimolare qualche voto, i campionati di società sono diventati una competizione di serie C, senza nessuna attrattiva verso l’esterno, e tutto questo nonostante sia la manifestazione che coinvolge tutto quello che dovrebbe essere il serbatoio dell’atletica italiana su pista.
La decisione, oggi possiamo dirlo, fu sciagurata. Il bene di pochi contro il benessere di tutti. Ha regalato scudetti alle società civili svilendo il prodotto generale: sono infatti passate alla storia le pubbliche esternazioni di Franco Bragagna ad un campionato di società, in cui sbottò per le scene cui stava terrificanti assistendo in diretta sui 3000 siepi in cui furono schierati allievi alle prime armi. Ora Bragagna non segue nemmeno più le finali dei cds delegando i colleghi delle freccette e del biliardo.
Ho perso due giorni a spulciarmi i risultati fino a notte fonda per produrre i top-30 dei cds: la domanda che mi continuavo a fare era questa: ma questo livello medio-basso è sempre esistito, o ci siamo arrivati a poco a poco? Specialità “in crisi nera”, come gli ostacoli o il mezzofondo.
Il mezzofondo femminile, ad esempio, è praticato solo da atlete in età da master. Nei 110hs in pochissimi sono scesi sotto i 15″. I 15″! Nei 400hs in sole due sedi si è scesi sotto i 52″ tra gli uomini. Solo due donne sono scese sotto il minuto in quelli femminili. Nel salto in lungo un solo atleta sopra i 7,50. Nel lungo femminile una sola atleta sopra i 6 metri. Insomma, potremmo continuare così all’infinito, ma l’immagine è inclemente: l’atletica italiana alternativa alla 50ina di atleti che compongono la vera elite, sembra qualcosa allo stato embrionale, con tanti giovani atleti promettenti, cui capita di fare cose eccezionali, ma in un contesto altamente provincializzato.
Diversi bei giovani promettenti, certo, ma attenzione anche qui: già molti atleti che brillarono a Eugene solo l’anno scorso, quest’anno hanno subito dei cali prestativi. Perchè?
Rimane la velocità, che comunque presenta sempre qualche bella individualità. Se un marziano venisse sulla terra e giudicasse lo stato delle cose, vedrebbe questa mania dello sprint italico del tutto illogica: non ci sono spazi a livello internazionale se non si corre costantemente sotto i 10″00 sui 100 con altissimi livelli di investimento sul singolo atleta, ovvero condizioni irraggiungibili alle nostre latitudini anche solo per il fatto che mancano le strutture per fare i professionisti.
Perchè quindi tutti velocisti? Perchè è più facile? Perchè soddisfa di più? Può essere, eh, che doversi allenare per qualche specialità tecnica o di fatica, fossero anche i 400.
L’articolo diventa troppo lungo e rischio di non trasmettere nessuna idea e stancare ancor di più, quindi…
Quindi l’impressione è che i campionati di società siano una manifestazione che da fuori sembra obsoleta, senza attrattive, e non frequentata dai migliori atleti italiani. Rimane per chi la vive un modo coinvolgente di vivere lo sport, con gli elementi aggregativi dello spirito di squadra, dell’amicizia, della condivisione. Ma non si può trovare qualcosa di innovativo che coniughi gli aspetti positivi e li armonizzi con elementi “nuovi”?
Se nella nostra società mediatica non si veicola un prodotto a chi dovrà consumarlo, il prodotto è morto, non si vende, non ha un ritorno non solo mediatico, ma anche a livello di proselitismo. Si parla sempre di scuola come un mantra: ma alla fine oggi è solo un modo come un altro per molti di tirar fuori la parola a sensazione senza avere la ben che minima idea organizzativa su come e chi dovrebbe portare l’atletica nelle scuole: basta pronunciarla che tutti si ammansiscono annacquandosi e soprattutto senza fare nulla proprio per l’atletica… a scuola.
Ma l’atletica e la sua organizzazione dovrebbe regalare ai propri tesserati un prodotto godibile, entusiasmante, coinvolgente, e che dall’esterno sia vissuto come tale, e che spinga gli atleti a non abbandonarlo, e non solo lamentarsi perchè non c’è l’atletica nelle scuole. Come abbiamo già dimostrato con alcuni studi, il problema generale non è il poi il proselitismo in sè, ma la fuga dall’atletica di quelli che già ci sono.
Ora, non è certo colpa di questa Fidal, ma di un lunghissimo percorso verso il basso di tutte le Fidal che si sono succedute da diversi mandati a questa parte. Certo questa non ha fatto proprio nulla per migliorare la situazione, impegnata com’è e come sarà sul fronte delle medaglie internazionali e delle corse su strada. Unica innovazione per l’atletica generalista su pista in 3 anni di mandato, è stata l’introduzione del geniale minimo B per i campionati italiani individuali. Un successone. Ma se non si cambia, è ormai ben chiaro il destino di tutto il movimento.
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(per domani giovedì l’approfondimento dei CdS trevigiani!)
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